Siddharta | Il Buddha (Seconda Parte)

Pexels Suraphat Nueaon 937464

Come pervenire alla comprensione finale, completa e definitiva del mondo e dell’Io? Come evitare di cadere nell’inganno dell’illusione, del Velo di Maya?

I pensieri di Siddharta ruotano intorno a tale quesito, che costituisce il punto di partenza e di arrivo del suo itinerario di crescita spirituale, un itinerario che, come vedremo, si articola in più fasi. Tante sono le avventure, le persone incontrate, le esperienze vissute, i ripensamenti e le fatiche del cuore ma ogni vicenda è un tassello che va a comporre la sua consapevolezza e come tale è da lui benedetta.

” Rifletteva Siddharta nel suo camino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, cosi come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: “Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose , non sono riusciti a insegnarti?” Ed egli trovo: ” L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui.”

Siddharta si guardò intorno e un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come un risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi.

Si guardò attorno come se vedesse il mondo per la prima volta. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzuro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo era lui, Siddharta, il Risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso.

“Io non sono più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più sul mio cammino.”

Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d’un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera bestiola, quando s’accorse quanto fosse solo. Ora lo sentiva. Questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del rinascimento. E tosto riprese il suo cammino, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro.

Una mattina, Siddharta pregò il barcaiolo di traghettarlo oltre il fiume. Il barcaiolo lo fece salire sulla sua zattera di bambù; l’ampia distesa d’acqua s’imporporava nella luce del mattino.

“Un bel fiume”, diss’egli al suo compagno.

“Si,” rispose il barcaiolo “bellissimo fiume, io lo amo più d’ogni altra cosa. Spesso lo ascolto, spesso lo guardo negli occhi, e sempre ho imparato qualcosa da lui. Molto si può imparare da un fiume”.

“Ti ringrazio, mio benefattore” disse Siddharta quando saltò sull’atra riva. “Non ho alcun dono per ricambiare la tua ospitalità, ne ho denaro per pagarti il traghetto. Non ho casa, io, sono un figlio di un Brahmino e un Samana”.

“L’avevo ben visto”, disse il barcaiolo “e non m’aspettavo nessun compenso da te e nessun dono in cambio dell’ospitalità. Mi darai il dono un’altra volta”.

“Lo credi?” chiese Siddharta di buon umore.

“Sicuramente. Anche questo ho imparato dal fiume: tutto ritorna! Anche tu, o Samana, ritornerai. Ora addio! Possa la tua amicizia essere il mio compenso. Ricordati di me quando sacrifichi agli dèi”.

” E’come Govinda”, pensava sorridendo “tutti coloro che incontro sul mio cammino sono come Govinda. Tutti sono riconoscenti, mentre avrebbero essi stessi diritto a riconoscenza. Tutti sono sottomessi, tutti desiderano essere amici, desiderano obbedire e pensare meno che si può. Bambini sono gli uomini.”

Alla estremità del villaggio la strada attraversava un ruscello, e sulla riva del ruscello era inginocchiata una giovane donna e lavava. Come Siddharta la salutò, ella levò il capo e lo guardò sorridendo, le gridò un augurio, come si vuol fare tra viaggiatori e le chiese quanto cammino ci fosse ancora fino alla città grande. Allora ella si alzò e gli si avvicinò: bella le splendeva la bocca nel giovane volto. Scambiò con lui alcune parole scherzose, gli chiese se avesse già mangiato, se fosse vero che i Samana di notte dormono soli nei boschi e non possono tener donne con sè. Ciò dicendo pose il piede sinistro sul destro e fece un movimento come fa la donna quando invita l’uomo a quella forma di godimento d’amore che i libri della dottrina chiamano “l’arrampicata sull’albero”. Sollevando lo sguardo vide il suo volto sorridere vogliosamente e gli occhi rimpicciolirsi e quasi dissolversi nel desiderio. Anche Siddharta sentì desiderio, ma, come non aveva ancora mai toccato donna, le sue mani, già pronte ad afferrare, esitarono un momento. E in quel momento udì, rabbrividendo, la voce della sua coscienza, e la voce diceva: no. Allora sparì ogni incanto dal volto sorridente della giovinetta, egli non vide più altro che l’umido sguardo di una bestiola in calore. L’accarezzò affettuosamente sulla guancia, si distolse da lei e scomparve con sguardo leggero nel canneto di bambù.

Quello stesso giorno raggiunse , in serata, una grande città, e si rallegrò, poichè desiderava ardentemente trovarsi fra gli uomini.

All’ingresso della città, presso un bel boschetto cintato, s’imbattè nel pellegrino una piccola schiera di servitori carichi di ceste. In mezzo a loro, in un’adorna lettiga portata da quattro persone, sedeva sui cuscini rossi, sotto un parasole variopinto, una signora, la padrona.

Sotto neri capelli acconciati a guisa di torre, egli vide un voto luminoso, molto tenero , molto vivace, una bocca rossa come in fico appena spezzato, sopraciglia curate e dipinte in alto arco, occhi neri intelligenti e vivaci, collo fragile e sottile che emergeva dal corpetto verde e oro; le candide mani riposavano lunghe e strette, con larghi cerchi d’oro ai polsi.

Siddharta vide quanto fosse bella, e rise il suo cuore. Sorridendo accennò un saluto alla bella donna. Avrebbe avuto voglia di entrare subito in quel giardino, ma si trattenne, e solo allora si rese conto del modo con cui servitori e ancelle l’avessero considerato all’ingresso, con quanto disprezzo, con quanta diffidenza, con quanta repulsione.

Sono ancora un Samana , pensò, ancor sempre un eremita e un mendicante. Non posso rimanere in questo stato; non così posso pretendere di entrare nel giardino.

Dalla prima persona in cui s’imbattè per strada s’informò del giardino e del nome di quella donna, e apprese che quello era il giardino di Kamala, la celebre cortegiana, e che oltre a quel boschetto ella possedeva una casa in città.

Verso sera strinse amicizia con un garzone barbiere e di buon mattino, prima che i primi clienti entrassero nella bottega, si fece radere la barba e tagliare i capelli, nonchè pettinare la chioma e ungere di essenze profumate. Poi andò a bagnarsi nel fiume.

Nel tardo pomeriggio, quando la bella Kamala giungeva nel suo boschetto, Siddharta stava all’ingresso, s’inchinò e ricevette il saluto della corteggiana.

” Non sei tu ch’eri là fuori già ieri e che m’hai salutata?” chiese Kamala.

” Certo: ti ho già vista ieri e ti ho salutata”.

” Ma ieri non avevi la barba, e i capelli lunghi e impolverati?”

” Bene hai osservato, nulla è sfuggito al tuo sguardo. Tu hai visto Siddharta, il figlio del Brahmino, che ha abbandonato casa sua per diventare un Samana e per tre anni è stato veramente un Samana. Ma ora ho abbandonato quella strada, e venni in questa città, e la prima in cui m’imbattei, all’ingresso di questa città fosti tu. Per dirti questo sono venuto, o Kamala! Tu sei la prima donna a cui Siddharta parli altrimenti che con occhi bassi. Mai più voglio abbassare gli occhi, quando una bella donna mi sta di fronte”.

“E solo per dirmi questo Siddharta è venuto da me?”

” Per dirti questo e per ringraziarti di essere cosi bella. E se non ti dispiace, Kamala, vorrei pregarti d’essere mia amica e maestra, poichè non so ancora nulla dell’arte in cui tu sei maestra”.

” Mai mi è successo, amico, che un Samana venisse a me dal bosco per mettersi alla mia scuola! Mai mi è successo che venisse a me un Samana dai capelli lunghi e in vecchio abito stracciato da penitenza! Molti giovanotti vengono a me, e tra questi anche figli di Brahmini, ma vengono ben vestiti, ben calzati, uno squisito profumo nei capelli e molto denaro in tasca. Cosi, o Samana, sono fatti i giovanotti che vengono a trovarmi”.

” Non ti basta Siddharta così com’è, coi capelli profumati ma senz’abiti, senza scarpe, senza denaro?”

Ridendo esclamò Kamala: ” No, caro mio, ancora non mi basta. Abiti devi avere, abiti eleganti, e scarpe, scarpe fini, e molto denaro in tasca, e doni per Kamala. Lo sai ora, Samana del bosco? Te ne sei ben preso nota?”

“Cara Kamala , allora consigliami: dove devo andare a trovare al più presto queste cose?

” Caro mio, questo è quanto molti vorebbero sapere. Devi eseguire ciò che hai imparato e farti dare in cambio denaro, abiti, scarpe. Non c’è altro mezzo, per un povero, di procurarsi denaro. Che cosa sai fare, dunque?”

” Io so pensare. So aspettare. So digiunare.”

“Nient’altro?”

” Conosco anche le canzoni dei sacrifici, ma non le voglio più cantare. Conosco anche formule magiche, ma non le voglio più pronunciare. Ho letto le Scritture…”

” Un momento, sai leggere? E scrivere?” lo interruppe Kamala.

“Certo che so. Tanti sanno leggere e scrivere.”

“Mica tanto come credi. Io per la prima. Va benissimo che tu sappia leggere e scrivere, molto bene. Anche delle formule magiche avrai ancora bisogno. Adesso devi andare. Nessuno deve vederti! Ci rivedremo domani.”

S’era subito informato circa la casa di città di Kamala, e là si trovò il giorno dopo.

“Andiamo bene” ella gli gridò incontro. “Sei aspettato da Kamaswami, il più ricco mercante della città. Se gli vai a genio ti assumerà in servizio. Sii furbo, bruno Samana. Da altri gli ho fatto parlare di te. Sii cortese con lui: è molto potente. Ma non essere troppo modesto! Non voglio che tu divenga un suo servo: devi diventare un suo pari, altrimenti non sarò soddisfatta di te. Kamaswami comincia a diventare vecchio e pigro.”

“Hai avuto fortuna”, gli disse all’atto di separarsi. “Le porte ti si aprono innanzi l’una dopo l’altra. Come fai? Hai qualche incantesimo?”

Siddharta prese congedo con un bacio e andò dal mercante Kamaswami. Gli fu indicata una bella casa; fra preziosi tappeti, servi lo condussero in una bella camera, dove rimase in attesa del padron di casa.

Entrò Kamaswami, un uomo dai capelli fortemente griggi e occhi accorti. L’ospite e il padron di casa si salutarono cortesemente.

” Mi è stato detto” cominciò il mercante “che tu sei un Brahmino molto istruito, ma che cerchi un impiego presso un mercante. Sei caduto in miseria, Brahmino, per cercare impiego?”

” No,” disse Siddharta “non sono caduto in miseria e non son mai stato in miseria. Sappi che vengo dai Samana, presso i quali sono vissuto per molto tempo”.

” Se vieni dai Samana come fai a non essere in miseria? Non vivono i Samana in assoluta povertà?”

“Povero io sono,” disse Siddharta ” non possiedo niente se è questo che intendi dire. Certamente son povero. Ma lo sono volontariamente, quindi non sono in miseria”.

Kamaswami uscì e ritornò con un rotolo, che porse al suo ospite, chiedendo: “Sai leggere questo?”

Siddharta esaminò il rotolo, in cui era redatto un contratto commerciale, e cominciò a leggerne il contenuto.

“Benissimo” disse Kamaswami. ” E vuoi scrivermi qualcosa su questo foglio?”

Ciò dicendo gli porgeva un foglio e uno stilo: e Siddharta scrisse e gli restuì il foglio.

Kamaswami lesse: ” Scrivere è bene, pensare è meglio. L’intelligenza è bene, la pazienza è meglio”.

“Scrivi magnificamente” lodò il mercante. ” Per oggi, ti prego, sii mio ospite e prendi dimora in questa casa”.

Gli furono portati abiti e scarpe, e tutti i giorni un servo gli preparava il bagno. Due volte al giorno si serviva un ricco pasto, ma Siddharta prendeva cibo soltanto una volta al giorno, e non mangiava carne nè beveva vino.

Non era passato molto tempo da che era entrato in casa di Kamaswami, e già egli diventava compartecipe al commercio del suo padron di casa. Ma ogni giorno, all’ora ch’ella gli aveva stabilito, ben vestito, elegantemente calzato, visitava la bella Kamala, e ben presto prese anche a portarle regali. Ella gli insegnò a fondo la dottrina che non si ottiene piacere senza dare piacere, e che ogni gesto, ogni carezza, ogni contatto, ogni sguardo, ogni minima posizione del corpo ha il suo segreto, la cui scoperta avvia alla consapevole felicità. Gli apprese che, dopo una festa d’amore, gli amanti non debbono separarsi se non compresi di reciproca ammirazione. Ore meravigliose egli trascorse presso la bella ed esperta artista, e divenne suo scolaro, suo amante, suo amico.

Buona cosa gli affari, perchè gli procuravano il denaro per Kamala; e gliene procurava ormai più del necessario.

Tanto gli riusciva facile chiaccherare con tutti, vivere con tutti, imparare da tutti, altrettanto rimaneva consapevole, tuttavia, che qualcosa lo separava da loro; e questo qualcosa era la sua qualità di Samana. Vedeva gli uomini vivere alla maniera di bimbi o di bestie. Li vedeva affannarsi, soffrire e farsi i capelli grigi, per cose che a lui parevano di nessun conto: denaro, piccoli piaceri, piccoli onori, e gli vedeva litigarsi e accapigliarsi, gli vedeva lamentarsi di dolori sui quali il Samana sorride, e soffrire per privazioni di cui il Samana nemmeno s’accorge.

Un giorno Kamala gli disse: ” Sei più forte degli altri, più flessibile, più tenace. Hai bene appreso l’arte mia, Siddharta. Un giorno o l’altro, quando sarò più vecchia, voglio avere un figlio da te. Ma con tutto questo, amore, tu sei rimasto un Samana, con tutto questo tu non mi ami, non ami nessuna creatura umana. Non è cosi?”

“Può ben darsi che sia così” disse Siddharta con stanchezza. “Io sono come te. Anche tu non ami, altrimenti come potresti far dell’amore un’arte? Forse le persone come noi non possono amare. Lo possono gli uomini bambini: questo è il loro segreto”.

Gli anni passavano, e Siddharta, circondato dal benessere, quasi non s’accorgeva del loro corso. Era diventato ricco e già da tempo possedeva una casa propria con servitù e un giardino fuori della città lungo il fiume. Gli uomini lo stimavano, venivano da lui quando avevano bisogno di denaro o di consigli, ma nessuno gli era realmente vicino, a eccezione di Kamala.

Lentamente, come l’umidità penetra nel tronco dell’albero che muore, lo riempie a poco a poco e lo fa marcire, il mondo e la pigrizia erano penetrati nell’animo di Siddharta, lentamente riempivano l’animo suo, lo rendevano pesante e stanco, lo addormentavano.

Siddharta aveva imparato a condurre il commercio, a esercitare un potere sugli uomini, a compiacersi delle donne; aveva imparato a portare abiti eleganti, a comandare i servi, a prendere il bagno in acque profumate. Aveva imparato a mangiare cibi delicati e accuratamente cucinati, anche il pesce, anche la carne e gli ucelli, spezie e dolciumi, e aveva imparato a bere vino, che rende pigri e obliosi. Aveva imparato a giocare ai dadi e agli scacchi, ad ammirare danzatrici, a dormire su un letto morbido.

Ma sempre s’era ancora sentito separato dagli altri e superiore, sempre gli aveva considerati con un pò di scherno.

Come un abito nuovo col tempo si fa vecchio,, perde il suo bel colore, prende pieghe, divente consunto ai margini e qui e là comincia a mostrarsi frusto e sciupato, cosi la vita di Siddharta, ch’egli aveva cominciato dopo la separazione da Govinda, invecchiava e perdeva col passar degli anni la tinta e lo splendore, e nascosti, giù in fondo, qua e là facendo odiosamente capolino, aspettavano la delusione e il disgusto.

Il mondo l’aveva assorbito, il piacere, l’avidità, la pigrizia, e infine anche quel pecato ch’egli aveva sempre disprezzato e deriso come il più stolto di tutti: l’avarizia.

Cupo si recò Siddharta a un suo giardino di delizie, ne sarò la porta dietro di sè, si mise giù sotto un albero di mango e sentì la morte nel cuore e l’orrore nel petto; e sedendo s’accorse che qualcosa stava morendo in lui, qualcosa appassisse e andasse alla fine.

E così seppe Siddharta che il gioco era finito, che non l’avrebbe più potuto giocare. Un brivido li corse per il corpo e nell’anima: sentiva che qualcosa era morto.

In quella stessa notte Siddharta abbandonò il suo giardino, abbandonò la città e non vi ritornò mai più. Kamaswami credette che fosse caduto in mano di ladroni, e lo fece cercare a lungo. Kamala non lo fece cercare. Quando apprese che Siddharta era sparito, non si meravigliò. Non se l’era sempre aspettato? Non era egli un Samana, un randagio, un pellegrino? Da quel giorno in poi no ricevette più visite, e tenne chiusa la propria casa. Ma dopo qualche tempo s’accorse che, dal suo ultimo convegno con Siddharta, era rimasta incinta.

Siddharta giunse al gran fiume nel bosco, quello stesso fiume sul quale l’aveva traghettato un giorno un barcaiolo, quando egli era ancora giovane e veniva dalla città di Gotama. Stanchezza e fame l’avevano indebolito, e poi perchè andare oltre? Dove andare? Aquale meta?

Mentre fissava gli sguardi sbarrati nell’acqua, ci vide rispecchiato il proprio viso stravolto e ci sputò sopra. Con profonda stanchezza staccò il braccio dal tronco dell’albero e si volse un poco per lasciarsi cadere a fondo, per essere sommerso definitivamente. Affondava a occhi chiusi, incontro alla morte.

Ed ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua vita affaticata, palpitò un suono. Era una parola, una silaba, ch’egli pronunciava senza rendersene conto, l’antica parola con cui hanno inizio e fine tutte le preghiere dei Brahmini, il sacro Om.

“Om” diceva tra sè e sè: “Om”. E seppe di Brahma, seppe dell’indistruttibilità della vita, seppe del Divino, seppe di nuovo tutto ciò che aveva dimenticato.

Siddharta si drizzò, poichè vide seduto di fronte a sè un uomo, uno straniero, un monaco in tonaca gialla e col capo rasato, in atto di persona immersa nella meditazione. Egli osservò l’uomo e non tardò a riconoscere in questo monaco Govinda, l’amico della sua giovinezza, Govinda che si era convertito alla legge del subblime Buddha. Govinda era invecchiato anche lui, ma il suo volto mostrava ancor sempre gli antichi tratti, esprimeva zelo, fedeltà, ansia di ricerca, premura. Ma quand’ora Govinda, sentendo il suo sguardo, aprì gli occhi e lo guardò, Siddharta s’accorse che Govinda non lo riconosceva.

” Ho dormito” disse Siddharta. ” E tu come sei giunto qui?”

” Hai dormito” confermò Govinda. “Ma ora che tu sei sveglio, lasciami andare perchè possa raggiungere i miei fratelli”.

“Addio, Govinda” disse Siddharta.

Il monaco s’arrestò.

” Scusa, signore, come sai il mio nome?”

Allora Siddharta sorrise.

“Io ti conosco, o Govinda, da quando vivevi in casa da tuo padre, e dal tempo in cui andavi a scuola dai Brahmini, e dal tempo dei sacrifici, e dal tempo in cui ci recammo presso i Samana, e da quell’ora in cui tu, nel boschetto di Jetavana, passasti fra le schiere del Sublime”.

“Tu sei Siddharta!” gridò forte Govinda.

“Dove vai, amico?”

“In nessun posto, vado. Sempre siamo in cammino, noi monaci, viviamo secondo la nostra Regola, predichiamo la dottrina. Ma tu, Siddharta, dove vai?”

Disse Siddharta: ” Anch’io mi trovo in una condizione come la tua, amico. Non vado in nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando.”

Govinda rispose: “Tu dici vado errando, e io ti credo. Ma perdona, o Siddharta, non hai l’aria d’un pellegrino. Porti un abito da signore, porti scarpe da uomo raffinato, e i tuoi capelli, cosparsi d’acqua odorosa, non sono i capelli di un pellegrino, la chioma d’un Samana.”

“Ebbene, caro, la tua osservazione è esatta, ma io non ho detto di essere un Samana. Ho detto: vado errando.”

“Vai errando” disse Govinda. ” Ma pochi vanno in pellegrinaggio con simili abiti, con simili scarpe, con capelli acconciati in quel modo. Mai ho incontrato un pellegrino simile, io che vado errando già da tanti anni”.

“Li porto perchè sono stato ricco, e porto i capelli come li porta la gente mondana, perchè anch’io sono stato uno di quelli”.

Govinda guardò a lungo l’amico della sua giovinezza; un dubbio era nei suoi occhi. Poi lo salutò, come si salutano le persone di riguardo, e se ne andò per la sua strada.

Sorridendo Siddharta seguì con lo sguardo il monaco che s’allontanava.

Ora Siddharta intuì perchè da Brahmino, da penitente, avesse invano lottato col proprio Io. Troppa scienza l’aveva impacciato, troppi sacri versetti, troppe regole per i sacrifici,troppo affano per l’azione! Pieno d’orgoglio era stato, nsempre il più intelligente, sempre il più diligente, sempre di un passo davanti agli altri, sempre lui a sapere, sempre lui a vivere nello spirito, sempre lui il sacerdote o il saggio. In questo sacerdozio, in questo orgoglio, in questa spiritualità , s’era annidato il suo Io, là sedeva indisturbato e prosperava, mentr’egli credeva di ucciderlo con digiuni e penitenza. Ora se n’accorgeva, ora vedeva che la voce segreta aveva avuto ragione, che nessun maestro mai lo avrebbe potuto liberare. Per questo aveva dovuto scendere nel mondo, perdersi nel piacere e nel potere, nelle donne e nell’oro, aveva dovuto diventare un mercante, un giocatore di dadi, un beone e un avaro, finchè il sacerdote e il Samana in lui fossero morti.

Su questi pensieri meditava e contemplava la corrente del fiume; mai un’acqua gli era piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che passa. In quel fiume Siddharta s’era voluto annegare, in quel fiume oggi s’era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddharta.

Ma il nuovo Siddharta sentiva un amore profondo per quest’acqua fluente, e decise tra sè di non abbandonarla troppo presto.

Quando raggiunse il traghetto, la barca era pronta, e vi stava dentro lo stesso barcaiolo che una volta aveva trasportato il giovane Samana oltre il fiume. Siddharta lo riconobbe, ma era invecchiato anche lui.

Il barcaiolo, stupito di vedere un signore così distinto andarsene solo a piedi, lo fece salire nella barca.

Siddharta rise: “Già una volta quest’oggi sono stato giudicato dai miei abiti, giudicato con diffidenza. Non vorresti, barcaiolo, prenderti questi abiti che mi sono venuti a noia? Pechè devi sapere che non ho il denaro per pagarti il traghetto”.

“E il signore vuol continuare il viaggio senza vestiti?”

“Mi piacerebbe non continuarlo affatto, il viaggio. Più di tutto mi piacerebbe che tu, barcaiolo, mi dessi un vecchio grembiule e mi tenessi con te come tuo apprendista.

“Ora ti riconosco”, disse alla fine. Una volta tu hai dormito nella mia capanna, tanto tempo fa, forse più di vent’anni, e poi io ti portai dall’altra parte del fiume e ci separammo come vecchi amici. Allora benvenuto, Siddharta, io mi chiamo Vasudeva. Anche oggi sarai mio ospite, spero, e dormirai nella mia capanna e mi racconterai da dove vieni e perchè i tuoi magnifici abiti ti son venuti tanto a noia”.

C’era qualcosa in quel traghetto e in quei due barcaioli che non sfuggiva a certuni dei viaggiatori. Accadeva talvolta che uno dei viaggiatori, dopo aver guardato in volto uno dei barcaioli, cominciasse a raccontare la propria vita, rivelasse sofferenze, confessare torti, chiedesse consolazione e consiglio.

E accadeva anche che arivassero curiosi, ai quali era stato raccontato che vivevano a questo traghetto due saggi, o stregoni, o santi.

Una volta giunsero anche monaci in pellegrinaggio, seguaci di Gotama, il Buddha, che pregarono d’essere traghettati.

In uno di questi giorni, in cui tanti pellegrini si muovevano in fretta verso il Buddha che stava per lasciare questo mondo, si mosse a quella meta anche Kamala, una volta la più bella delle cortegiane. Già da lungo tempo ella aveva abbandonato il proprio giardino a monaci di Gotama, s’era convertita alla sua dottrina, e faceva parte delle amiche e benefattrici dei pellegrini. Insieme col piccolo Siddharta, suo figliolo, s’era messa in cammino alla notizia della prossima morte di Gotama, semplicemente vestita, a piedi. Col suo figlioletto era giunta fino al fiume, ma il bambino s’era presto stancato, voleva mangiare, diventava capriccioso e Kamala dovette spesso sostare a riposare con lui. Anche lei, del resto, era stanca e si lasciò andare a terra , chiuse un poco gli occhi e riposò. Ma improvvisamente emise un piccolo grido, il ragazzo la guardò spaventato, e le vide il volto sbiancato dal terrore: da sotto i suoi abiti sbucò fuori un serpentello nero, dal quale era stata morsicata.

Vasudeva, che si trovava al traghetto sentì le grida d’aiuto, arrivò di corsa, prese la donna sulle braccia, la depose nella barca, il fanciullo corse con lui, e ben presto giunsero tutti alla capanna, dove Siddharta accendeva il fuoco. Egli volse lo sguardo e vide prima il volto del bambino, che toccò meravigliosamente la sua memoria, lo ricondusse a qualcosa di dimenticato. Poi vide Kamala, e la riconobbe subito, e immediatamente seppe che quello era suo figlio.

Kamala lo guardò negli occhi. Parlò, ma la sua lingua era appesantita dal veleno. ” Sei diventato vecchio, amore. Griggio sei diventato, ma sembri ancora il giovane Samana che un giorno venne a me nel giardino, senz’abiti e coi piedi impolverati. Ahimè, sono diventata vecchia anch’io, vecchia… Mi riconosceresti ancora?”

Siddharta sorrise: “Subito ti riconobbi, Kamala, amore”.

Kamala indicò il bambino e disse: “Anche lui hai riconosciuto? E’ tuo figlio”.

Quando l’ultimo brivido le percorse le membra, egli le chiuse le palpebre con un dito. Rimase a lungo a guardare il suo volto.

Di mattino presto, ancor prima che spuntasse il sole, Vasudeva venne fuori dalla stalla e si avvicinò al suo amico.

“Tu hai sofferto, Siddharta, ma vedo che non è entrata tristezza nel tuo cuore”.

“No, amico, perchè mai dovrei esser triste? Io, che fui ricco e felice, sono ora diventato ancor più ricco e felice: ho avuto in dono mio figlio”.

Impaurito e piangente il ragazzo aveva assistito al funerale della madre, cupo e scontroso. Siddharta lo trattò con dolcezza e lo lasciò fare: rispettava il suo dolore. Capiva che suo figlio non lo conosceva e non lo poteva amare come padre. Ma osservando capiva anche che quel’undicenne era un ragazzo viziato, un cocco di mamma, avvezzo a cibi ricercati, cresciuto nell’abitudine della richezza.

Ricco e felice s’era detto, quando aveva recuperato suo bambino. Ma poichè intanto il tempo passava, e il ragazzo continuava a rimanere chiuso e scontroso, mostrava un cuore pieno d’orgoglio e facile all’ira, non voleva saperne di lavorare, non mostrava alcun rispetto per i due vecchi e saccheggiava gli alberi di frutta di Vasudeva. Da quel ragazzo si lasciava comandare, si lasciava disprezzare. Taceva e aspettava, ricominciava ogni giorno la muta lotta dell’affetto, la guerra silenziosa della pazienza. Anche Vasudeva taceva e aspettava benigno, consapevole e tollerante.

Ben s’accogeva che questo amore, questo amore cieco per suo figlio era una passione, era qualcosa di molto umano, era samsara, una sorgente torbida, un’acqua non pura.

Un giorno, il ragazzo gli disse: “Tu vuoi ch’io diventi come te, anch’io così pio, così mite, così saggio! Ma io, ascolta bene, io preferisco, proprio per farti dispetto, diventare un brigante e un assassino da strada e finire all’inferno, piuttosto di diventare come te! Ti odio, tu non sei mio padre, anche se fossi stato per mille volte l’amante di mia madre”.

Ma il giorno dopo era sparito. Sparita anche la barca: Siddharta la scorse ferma dall’altra parte del fiume. Il ragazzo era fuggito.

Un giorno , Siddharta attraversò il fiume, sospinto dalla nostalgia, e scese dalla barca deciso ad andare in città e cercare suo figlio. Il fiume scorreva calmo e lieve, Siddharta si fermò, si chinò sull’acqua, e nell’acqua che fluiva tranquilla, vide rispecchiato il proprio volto. Somigliava al volto di suo padre, il Brahmino. E si ricordò come tanto tempo innanzi, giovanetto, egli avesse costretto suo padre a lasciarlo andare dagli eremiti, come se ne fosse andato senza fare mai più ritorno. Non aveva sofferto anche suo padre della stessa pena di cui egli soffriva ora per suo figlio? Non era morto in solitudine suo padre da tanto tempo, senza averlo più rivisto?

Siddharta ritornò nella barca e fece ritorno nella capanna, ripensando a suo padre, ripensando a suo figlio, deriso dal fiume, in disaccordo con se stesso. E in quell’ora Siddharta cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire.

Vasudeva si alzò dal sedile, posò lievemente una mano sulla spalla di Siddharta e disse: “Aspettavo quest’ora, amico. Ora è venuta, lasciami andare. A lungo ho aspettato quest’ora, a lungo sono stato il barcaiolo Vasudeva. Ora basta, addio capanna, addio fiume, addio Siddharta!”

Siddharta s’inchinò profondamente davanti al compagno che si cogedava.

Raggiante si allontanò: Siddharta lo seguì a lungo con lo sguardo. Con profonda gioia, con serenità profonda lo guardò dileguare, e vide i suoi passi pieni di pace, vide il suo capo circonfuso di splendore, vide la sua figura radiosa di luce.

Un giorno, Govinda si recò al fiume e pregò il vecchio che lo traghettasse e quando furono sulla barca gli disse: ” Tu hai dimostrato molta buona volontà verso noi monaci e pellegrini, molti di noi hai già traghettato. Non sei anche tu, o barcaiolo, uno che cerca la retta via?

Parlò Siddharta: ” Un tempo, o venerabile, tanti anni fa, tu passasti già un’altra volta presso questo fiume e vi trovasti un uomo addormentato, e ti sedesti accanto a lui per protegerne il sonno. Ma quell’uomo che dormiva, o Govinda, tu non l’hai riconosciuto.”.

“Tu sei Siddharta?” chiese timidamente.

“Anche questa volta non t’avrei riconosciuto! Di cuore ti saluto, Siddharta! Di cuore mi rallegro di rivederti!”

Govinda passò la notte nella capanna e dormì sul giaciglio ch’era stato un tempo il giaciglio di Vasudeva. Molte domande rivolse all’amico della sua giovinezza, molto gli dovette raccontare Siddharta della propria vita.

Siddharta disse: “Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, di smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli con gioia. Tali , o Govinda, sono alcuni dei pensieri che mi sono venuti in mente”.

Tacquero a lungo i due vecchi. Poi Govinda parlò, mentre s’inchinava per prendere congedo. “Ti ringrazio, Siddharta, di avermi rivelato qualcosa dei tuoi pensieri. Sono pensieri singolari, in parte, e non tutti mi sono riusciti immediatamente chiari. Ma comunque sia, ti ringrazio, e ti auguro giorni di pace”.

Ma in segreto pensava: “Questo Siddharta è un uomo stupefacente, meravigliosi pensieri esprime, e la sua dottrina sembra un pò pazzesca. Mai, dacchè il nostro sublime Gotama entrò nel nirvana, mai ho incontrato un uomo del quale sentissi così distintamente: costui è un santo!Soltanto lui, Siddharta, mi ha fatto questa impressione”.

Profondamente s’inchinò Govinda, sul suo vecchio viso corsero lacrime, delle quali egli nulla sapeva, come un fuoco arse il suo cuore il sentimento del più intimo amore, della più umile venerazione. Profondamente egli s’inchinò, fino a terra, davanti all’uomo che sedeva immobile e il cui sorriso gli ricordava tutto ciò ch’egli avesse mai amato in vita sua, tutto ciò che nella sua vita vi fosse mai stato di prezioso e di sacro”.

“La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri pochi sono, come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino”. Siddharta, H. Hesse

Dopo aver ascoltato il fiume, l’intuizione principale che condurrà Siddharta all’illuminazione, è che il tempo è un’illusione, e che la vita non è un susseguirsi di eventi ma è onnipresente. Il passato e il futuro sono parte di un eterno presente.

Siddharta di Herman Hesse è un libro che ognuno di noi dovrebbe leggere almeno una volta nella vita, ricco di insegnamenti, riflessioni e intuizioni sempre nuove e molto importanti.

Se volete approfondire, migliorare il vostro stato di benessere fisico e mentale o semplicemente lasciarvi guidare, non esitate a scrivermi per partecipare alle mie lezioni di Yoga oppure alle sessioni individuali di riequilibrio energetico.